I mente-corpo, il corpo-mente, dove inizia l’uno e finisce l’altro?
Nel secolo scorso il “medico di famiglia” era colui che si prendeva cura delle famiglie di una specifica circoscrizione geografica.
Il suo era un intervento a 360 gradi, nel senso che veniva contattato per la risoluzione delle problematiche più disparate ed era a conoscenza della storia personale e familiare di ogni singolo paziente, inclusi i suoi segreti più inconfessabili.
Le nuove scoperte mediche realizzate negli ultimi decenni e la nascita della psicologia ci hanno permesso di avere una visione sempre più complessa del funzionamento umano.
Questo risultato è stato ottenuto con la nascita di un sapere sempre più specializzato, settoriale che ha permesso la formazione di diverse branchie fra cui la neurologia, psichiatria, ortopedia, ginecologia e via dicendo. Se da un lato questa strada intrapresa ha permesso il raggiungimento di risultati molto importanti, dall’altro canto potrebbe indurre nell’errore di acquisire una visione “frammentata” dell’individuo il quale non viene più visto come una persona, ma, come un “organo”, “un idea” da curare.
La persona si trasforma, così, nella gamba che fa male, nel mal di testa, nell’ansia, lo stress, ecc. Sembra assistere sempre più alla diffusione di una falsa credenza secondo cui il corpo e la mente sarebbero due entità separate, due “vicini scontrosi” che non si parlano ignorandosi a vicenda.
Bisogna considerare che la divisione mente-corpo è un esigenza puramente teorica e che non riflette il funzionamento reale.
Come si fa a distinguere dove inizia la mente e dove finisce il corpo? D’altronde la mente non è essa stessa corpo?
Proviamo a pensare alle situazioni quali la presenza di stati ansiosi, attacchi di panico, stress e l’ipocondria. In questi casi l’individuo pone la sua attenzione solo sul corpo, sul sintomo o sulla sensazione corporea che gli arreca preoccupazione e fastidio.
La persona si ritrova a fare una “caccia alle streghe”, ovvero si prende cura dell’organo sofferente senza mai giungere ad una soluzione poiché, inconsciamente, affronta il problema da un punto di vista sbagliato. La scorrettezza delle sue azioni, le quali tendono a sfinire il soggetto demoralizzandolo per via degli scarsi risultati ottenuti, derivano dal confondere la causa del malessere con la sua manifestazione.
La sofferenza del corpo serve a dire “eh, ascoltami, qui c’è qualcosa che non va!” e nel caso in cui si prova solo a tamponare questo dolore, attraverso l’assunzione costante di farmaci, si realizza un’incomprensione che darà vite a comunicazioni successive sempre più intense e anche di natura differente. Il dolore fisico può anche essere spostato, passare da un organo all’altro, in quanto il nucleo del messaggio resta sempre lo stesso: la richiesta d’aiuto.
Vi è un corpo che soffre perché la mente non è stata in grado di farsene carico e, per questo, prova a liberarsene attraverso il dolore fisico.
Questo passaggio è molto importante e per questo non va frainteso, nel senso che non bisogna ignorare la cura del copro pensando che “tutto dipenda dalla mente”, poichè il corpo e la mente sono un tutt’uno, un’unica unità, due facce di una stessa medaglia.
Noi siamo portati, in modo automatico, a dare senso a tutto ciò che ci circonda compresi gli stimoli corporei ed il significato attribuito ad una malattia, ad esempio, sarà sempre una questione soggettiva in quanto sarà influenzato dalla nostra storia personale e da vissuti emotivi già sperimentati.
Quanto detto viene supportato dalle ricerche scientifiche le quali hanno dimostrato, ad esempio, che l’attività del nostro sistema immunitario è influenzata dall’umore, che la psicoterapia influenza l’assetto neuronale portando alla formazione di nuove sinapsi, della presenza di cellule neuronali nello stomaco. D’altronde la stessa esperienza del dolore è soggettiva, ad esempio la nostra mente può interpretare erroneamente degli impulsi confondendoli con quelli del dolore.
Tutte queste considerazioni ci fanno riflettere sulla complessità del nostro funzionamento e su come, a prescindere da quale che sia la causa primaria, la sofferenza localizzata nel corpo o nella mente non è mai una questione che riguarda solo “l’uno o l’altro” a causa delle continue comunicazioni ed influenze reciproche, come recita un famoso detto “mens sana in corpore sano” (mente sana in un corpo sano).
Queste considerazioni del funzionamento umano ci dovrebbero far riflettere sul rapporto professionale tra i diversi professionisti che si occupano della cura della persona.
L’integrazione, una visione più realistica del funzionamento umano richiederebbe una stretta collaborazione tra le diverse professioni sanitarie (infermieri, ostetrici, medici, psicoterapeuti, biologi, chimici).
Ma come si fa a collaborare con persone che seguono logiche di potere o di lobby? Intraprendere una lotta di potere, dimostrare di essere la disciplina più importante o seria ha come unico obiettivo l’arricchimento economico, narcisistico del professionista a discapito del benessere della persona.
Ci sono medici che “non credono nella psicoterapia oppure considerano i pensieri come un qualcosa di astratto” così come ci sono psicoterapeuti che ignora l’importanza e l’impatto del corpo.
Come possono essere astratti i nostri pensieri se guidano, sono alla base di tutte le nostre scelte e progetti di vita presenti e futuri? Non esiste nulla di più concreto dei nostri pensieri i quali influenzano sia il nostro quotidiano che il funzionamento del nostro corpo. Allo stesso tempo, come si fa ad escludere il corpo se anche la mente è corpo?
In base alle considerazioni fatte, potremmo chiederci: come può esistere un ambulatorio di cardiologia senza uno psicoterapeuta? Un servizio di medicina di base senza uno psicologo di base? In generale, come è solo pensabile avere ospedali e reparti senza la figura dello psicoterapeuta?
L’esperienza professionale ci insegna che nei casi in cui si riesce ad attivare una collaborazione costruttiva tra i diversi professionisti gli obiettivi raggiunti sono nettamente superiori e soddisfacenti se paragonati a quelle situazioni frammentate e scisse, dove si lavora in modo isolato e paranoico, pronti a svalutare e dubitare costantemente sull’utilità e l’importanza delle altre professionalità.
L’unico modo per rimettere al centro del nostro interesse il benessere del paziente è quello di superare i propri egoismi e partire dal presupposto che tutte le professioni hanno la loro professionalità, non si possono costruire ordini gerarchici in quanto “nessuno è più importante dell’altro” poiché siamo tutti strettamente interconnessi tra di noi: se tutte le parti non funzionano come dovrebbe, allora i risultati saranno scadenti a prescindere dal singolo valore, l’organismo ha il suo equilibrio interno.


